Prosa

Prosa

Biancaneve ed i venti nani

Data: 11.11.2012 | Autore: Marina Ventura

BIANCANEVE E I VENTI NANI

“Maestra,vero che sei di tutti?”
-”Certo Elisa, perché?”- “…..Perché Francesco dice che sei solo sua…”
A scuola mi posso sentire una vera regina.
Trenta tre anni di presenza assidua non hanno ancora fiaccato l’entusiasmo e la leggerezza che mi muovono quando sono con i miei bambini.
Trenta tre anni di visi,voci,colori,
caratteri mai uguali,da non permettere di essere confusi.
Alcuni periodi dell’anno scolastico sono veramente pesanti
Per qualcuno l’inserimento è una vera tragedia.
La loro sofferenza è così robusta che la tocchi ,attraverso piccoli corpi induriti,
ribelli,che rifiutano qualsiasi tipo di contatto.
Non ti concedono neppure lo sguardo. Sei trasparente.
Cerco un varco.
Con tenerezza di parole tranquille,determinate,rassicuranti.
Esistere per loro,inventandomi un corpo fatto di coriandoli festosi,
di orsetti di peluches,
di budino alla vaniglia. Corpo caldo,morbido,accogliente.
E’ una conquista interna quando ti accettano.
Quando passano dalle braccia materne alle tue,singhiozzando e smoccolandoti sul collo.
Ma abbracciano.
E’ il primo gradino della loro fiducia.
Poi è tutta in discesa .
In classe ,talvolta,mi fermo a guardarli:
fregi negli occhi magici,suoni, risatine, strilli, smorfie strane.
Depositari di mondi fantastici a noi preclusi.
Guerrieri,leoni,mamme,lupi.
Interagiscono attraverso invisibili regole che cospirano tra loro,con frasi,sguardi,
cenni,ed il gioco cambia e tutti si adeguano.
Si scelgono per il profumo. Si aspettano al mattino col naso appoggiato al vetro.
Si arrabbiano con furia per una costruzione che cade,o sghignazzano esattamente per lo stesso motivo.
Per qualcuno,la linea di confine da non superare,è una vera sfida.
La misurano. Funamboli in equilibrio sulla punta dei piedi,ti guardano con innocente sfrontatezza.
Talvolta insolenti,ingordi di primeggiare,in perenne contrasto interno tra l’essere gentile o prepotente.
Permalosi,con un senso innato per la giustizia,davanti alla prevaricazione insorgono.
C’è chi si arrende piangendo riparandosi sotto il tavolo,
viso occultato tra le braccia. Inconsolabile. Offeso.
Chi digrigna i denti e si avventa con le mani, bocca sulla carne, dove capita.
Chi subisce in silenzio. Lo sguardo quasi tramortito, come se ancora non conoscesse il torto,la truffa,il sopruso.
La classe è una grande scuola di vita.
Naturalmente vigilo.
Raccolgo da sotto il tavolo,trascinando con calma gentile,caviglie di bimbi diluiti nel pianto.
Fumo calumet della pace, in compagnia di arditi guerrieri,dagli occhi roventi
facilmente zuccherabili.
Utilizzo fiabe,aneddoti composti per l’occasione,per dispensare i principi del buon vivere dal cestino con le fragole.
Di tanto in tanto strillo. Quando serve. Si paralizzano. Seri.
C’è un attimo in cui sono miei.
Mi assorbono.
Quando faccio l’attrice.
Strega, pagliaccio, cucciolo, drago…
Occhi e bocche spalancati. Espressioni mescolate di divertimento e fifa.
Se esagero con i ghigni,i più coraggiosi picchiano con deferenza il mostro che sono, col sorriso di chi colpisce la maestra, e la rabbia di chi vuole liberarsi dalla paura.
Altri ti prendono il viso tra le mani,quasi a volerlo ricomporre, cancellare il mostro con una carezza,togliendo la polvere della paura con uno straccetto.
Quando mi spoglio del personaggio e torno me stessa,c’è un attimo di pausa.
Poi ridono. A squarciagola. Sollevati e divertiti.
E’ il loro ”Bentornata”.
“Sdraiati sul tappeto che ti copriamo!”
Coltri ululanti di risa, caute, attente,delicate.
“Ti amoro” Valentina è alle elementari ma mi scrive tramite sms.
“Ora che vai a casa,ti ricorderai di me?Ti mancherò?” Paolo
Goccia al cuore…da brava sentimentale che sono.
Mi emozionano.
Sono freschi ma caldi,veri, limpidi. Spietati. Teneri.
Colorate sanguisughe di energie e voce.
Trecce e code subito scarmigliate. Candele dal naso. Piccole mani.
Bisogni impellenti. Voci frastornanti.
Attenzione evanescente. Sorrisi. Selvatici abbracci.
Abito nuovo mostrato con entusiasmo,che inaugura una catena interminabile di mannequin in miniatura.
Fatica. Noia mai.
Mi permettono di essere me stessa.
Di esprimermi attraverso la loro fantasia.
Domando permesso e mi lasciano entusiasticamente entrare nel loro mondo dipinto,
riconoscendomi il potere di condurli,
di aprire barocchi cancelli celesti,in ferro battuto.
Esploratori di cirri parlanti.
Scalando oscure profondità.
Si sentono al sicuro se solo sfiorano la mia gamba,afferrano la mano.
Mi permettono di essere ogni giorno diversa,perché loro sono diversi ogni giorno.
Creativa.
Basta una giornata di cielo terso per travestirci da pittori impressionisti.
Uscire nei prati. Disegnare “en plein-air”,i colori vissuti e non pensati.
Nel loro modo così unico,originale,irripetibile.
Mangiano fili d’erba con me,girandomi attorno,con esultante scompiglio.
Quando torniamo a scuola, in fila per due, ci viene di cantare.
I sotterfugi?
Cerchiamo di lasciarli nelle nubi.
E’ un gioco bellissimo perché vincono tutti.

Mi ricordo un giorno di ogni giorno -cap. da I sette anni nuovi

Data: 26.10.2012 | Autore: da Annamaria Vezio


Mi ricordo le mie entree da star: ta tan!!! Braccio destro avanti, sinistro indietro, leggera genuflessione busto e capo eretto, sguardo da odalisca ammaliante e distaccato.
Al mattino la sveglia suona sistematicamente alle quattro e quindici con intervalli di dieci minuti fino alle quattro e quarantacinque, suono chiaro e acuto con bip bip a cento decibel che schiocca nell’emisfero cerebrale come freccia di Achille che vendica l’amico Patroclo. Le coperte attorno al capo per confondere la saetta e farle credere che non mi ha colpita; di ritorno la seconda e scuoto il corpo russante e pesante accanto a me, alla quarta risponde un brontolio. Sono le quattro e quarantacinque, Paride colpisce Achille, la tragedia è al culmine, l’ultimo bip bip è urli di battaglia grida di guerra rumori di armi, scuoto ancora il corpo dormiente e con la voce sommersa dagli strepiti di morte sillabo un: per carità ferma quella maledetta sveglia o alzati!. Nel silenzio tramortito lasciato cadere dalla bestia sul comodino snocciolano bestemmie, tonfi di poltrone scalciate, striduli graffi di grucce scagliate sul pavimento dopo esser state private degli abiti, e la voce, la voce profonda che mille anni fa incantava le mie fate, continua a snocciolare il rosario maledetto di cristi e dei e santi sbattuti dalle loro regge celesti nel perimetro della mia stanza da letto. La porta sbatacchia leggermente, fermata dal suo peso in un delicato clic mentre si appoggia allo stipite e incastra nella serratura, il più è passato nel corpo di aria che ha smosso nel compiere il suo giro sulle cerniere. Scosto le coperte dal corpo ma non per il caldo, è un gesto automatico forse di liberazione, non conosco il suo significato. Aspetto il silenzio facendo finta con me stessa di dormire nel frattempo.
La guerra è finita, il bel tempo ritorna e apro le finestre al giorno che viene, ed eccomi alla mia entree: ta tan!!!
Bevo il mio caffè sporta sul davanzale della finestra della cucina e mi immergo nel giorno che nasce, buongiorno mondo, oggi è un nuovo giorno! Sorrido, il giorno prima è rimasto fregato dalla saetta di Paride ed è morto stretto nelle braccia di Achille, ora è un giorno mio, sono odalisca e omaggio della mia figura plastica nella danza l’uomo ancora petite garçon che esce dalla sua stanza con i pantaloni abbracciati al petto e nudo come un verme striscia verso il bagno, gli occhi non li ha, sono rimasti sul cuscino, sento solo la sua voce e vedo le sue labbra diventare un sorriso. Canticchio una canzone in francese su di lui e sul salotto: bonjour bonjour mon petite amour. Io lanciatrice di coltelli, arma in mano guardo con acutezza e concentrazione il bersaglio, lancio primo: perfetto, il cuscino è arrivato precisamente nell’angolo tra bracciolo e spalliera del divano a righe damascato originale ottocento che ho corteggiato e posseduto nel giro di due anni. Tra un passo di danza e un tiro al bersaglio e fra le note sussurrate il secondo caffè allunga le sue grinfie sui nostri sensi. È giorno.
Il gran petite garçon ha gli occhiali sopra il naso ora e sorride anche con gli occhi mentre ci auguriamo buona giornata, il suo abbraccio mi scalda e il mio giorno ha il sole anche se il cielo è imbronciato. Il mio gran musichiere invece è ancora abbandonato fra le braccia di Morfeo e al materasso, attacco alla sua porta un biglietto ironico minaccioso di dimensioni enormi con le consegne delle ore a venire, in una parola quattro sorrisi e una risata, in tutta la missiva il bel giorno che ogni giorno ci si possa augurare. È giorno.
È un giorno di ogni giorno della mia vita, è la mia quotidianità mai trascinata nel tran tran asfissiante del sempre uguale, se oggi il mio gran petite garçon ha incontrato un’odalisca, ieri è stato svegliato dalle note di una musica e ieri l’altro da un profumo di torta nel forno e ieri l’altro ancora da un’altra entree che ha illuminato il suo risveglio di un sorriso.
E il mio gran musichiere ieri ha trovato un reggiseno scovato nel suo letto, arrotolato nella tazza della colazione e l’altro ieri gli appunti di letteratura medievale che tanto aveva cercato per tovagliolo, e ieri l’altro ancora una fila di preservativi con disegnini e coi nomi delle sue spasimanti. È un giorno di ogni giorno della mia vita, è la mia quotidianità mai trascinata nel tran tran asfissiante del sempre uguale.
Ora c’ è il mio giorno da vivere: “sole diventa il mio parlare anche quando altre voci entrano dalle mie orecchie per cadere come chicchi di grandine pesante su un campo di grano tenero”.
Se amore è la dolcezza di un sorriso, ho amato
La vita è ancora giovane e se al mio gran petite garçon la memoria del giorno di quei giorni non risveglia con quel sorriso il suo oggi è perché deve viversi, nei meandri della vita nuova deve farsi largo come il sole fra le nubi. Quando il giorno trionferà sulle nebbie dei crepuscoli e delle notti, sarà il bello, sarà il bel tempo che illuminerà il suo mattino di oggi e sarà il trionfo della sua vita nuova.
E il mio gran musichiere, quanti pentagrammi scritti troverà oggi! Note già poggiate che levitano dal suo cuore, che sono germogliate inconsapevoli nelle ore dei giorni di figlio.
Ah, se quelle entree, se quei canti sussurrati avessi dedicato anche a me, se avessi amato anche me!
Quanto amore i miei figli, figli dell’amore.
Quanto li amo se oggi donna sola e infelice continuo ad essere il sorriso del buio del giorno anche quando tutte le mie fibre piangono, quanta felicità ho imparato e vissuto a causa loro. Ho spezzato tutte le saette di Achille e Paride e ogni giorno ho cantato inni di gloria al giorno nuovo inneggiando alla vita, solo loro ho amato nella mia vita, solo loro so di amare con la forza capace di uccidere tutte le tristezze e le bestemmie e le notti. Solo il gran petite garçon e il mio gran musichiere sono fonte e delta.

Ventisette aprile duemilatre

Il mio spiritello strabico(Passione)

Data: 25.10.2012 | Autore: Marina Cecilia Ventura



Dov’è la saggezza oggi?
Dov’è la serenità?
Sole che dai fastidio, vattene,
infilati nella pancia di quella nuvola, senza ribellione,
stacci.
La tua luce che si sottrae al fumo grigio mi innervosisce, mi provoca.
Le orecchie mi fischiano come quel treno che parte.
Non passerà mai più quel treno.
E’ la mia vita, senza quel treno che vedo allontanarsi.
Nessun passeggero. Neanche una tinta.
C’è solo odore di ferro, di falce, di unto, che si allontanano per sempre.
Non è nostalgia quella che sento. Né rimpianto.
E’ qualcosa di più crudele.
Secco.
Cammino in questa stazione su alti trampoli e il viso bianco da clown.
Guardo e mi beffo con un sorriso disperato.
La testa è un’ape che ronza.
La carcassa metallica si stacca con lentezza.
Vedo.
Riconosco una parte di me,
amputata,
seduta sui sedili.
E’ guercia, folle, ricciuta, energica, disinibita, rarefatta, spontanea, vivace, golosa,
femmina, sinuosa, rapita.
Mi guarda senza sguardo, espressione, vita.
Non è veramente seduta.
Volteggia tra i sedili. Tocca tutt’intorno. Spinge sui vetri dei finestrini per uscire.
Cerca di esistere,sopravvivere,di tornare da me.
Ostinatamente.
Senza discernimento.
L’amo, quel ritaglio di me.
E’ inebriante.
Un mio talento autentico. Apprezzato.
Ma il treno si allontana e non riesco a correre con questi trampoli.
E non sono capace di camminare, senza.
Posso solo ridere,con un ghigno da pagliaccio orrendo.
Sogghignare sprezzando le mie lacrime che non lavano via il trucco sgraziato,ma lo cementano.
Lacrime che corrodono la pelle,i muscoli.
Decompongono i tratti del viso che cade a terra facendo accapponare il suolo.
Donna rettile. Scorticata
Con la mia pelle ho rivestito quel vagone di treno che si allontana lentamente
Lo guardo sparire…
lui,
evaporando, si colora.

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